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Dall'alto:

treno di laminazione su due linee parallele in azione presso l'Alfa Acciai di Brescia nel 1994;

la colata in siviera in un'acciaieria.
Dall'alto: l'uscita di operai dallo stabilimento siderurgico Dalmine (Bergamo);
la siderurgia del 2000: impianto "ESR" automatizzato a bagno di scoria con gas inerte della Lucchini di Lovere (Bergamo) per la produzione di lingotti d'acciaio.
a sinistra: operai intorno ad una siviera nella fossa di colata dell'Alfa Acciai di Brescia negli anni Sessanta.
Sullo sfondo: gli altiforni del centro siderurgico di Bagnoli (Napoli).
In Italia, ancora negli anni Trenta, l'acciaio veniva fabbricato in gran parte dal rottame. I tentativi di realizzare impianti in grado di produrre laminati partendo dal minerale ricevettero un forte impulso solo con "l'autarchia fascista", nel quadro di rapporti sempre più stretti con la Germania da cui proveniva il carbone.
In quest'epoca le figure chiave della siderurgia italiana furono Oscar Sinigaglia (1877-1953) ed Agostino Rocca (1895-1978), manager e tecnocrati che segnarono le vicende del settore nella prima metà del secolo.
Un primo impianto, in costruzione a Cornigliano (Genova) a ridosso della seconda guerra mondiale, venne smantellato
dai tedeschi, ma nel dopoguerra nella medesima località sorse un grande stabilimento a ciclo integrale, voluto da Oscar Sinigaglia, per sostenere l'inedita espansione dei beni di consumo durevoli, ad iniziare dalle automobili.
Con gli anni Settanta si ebbe un nuovo cambiamento di scena. I miglioramenti degli impianti a forno elettrico, e le capacità d'imprenditori come Luigi Lucchini ed Emilio Riva, consentirono ai privati di prevalere sulla siderurgia pubblica, che entrò completamente in crisi.